Virus e global warming



Guest post di Raffaele Scolari


Nel momento in cui un evento globale, mediante appositi processi di lavorazione, diventa notizia, ossia merce da piazzare sul mercato, soggiace eo ipso al regime di concorrenza. Così accade che la notizia riguardante un disastro, una guerra, una pandemia “concorre” con altri disastri, guerre e pandemie, sia nel senso che ha luogo contestualmente agli stessi, sia nel senso che con essi rivaleggia per il primato di visibilità sui media – con l’effetto di spingere nel cono d’ombra eventi e notizie che poco prima avevano tenuto banco. È esattamente quanto sta avvenendo attualmente: se per molti mesi il tema del riscaldamento climatico aveva spadroneggiato sulla scena della stampa, ecco che nel giro di poche settimane esso è stato sopravanzato dagli allarmi sulla epidemia pandemia di Coronavirus. Vi è stato chi, con più o meno dichiarato intento polemico, ha fatto notare che oggettivamente le minacce derivanti dal dilagare dei contagi sono pressoché nulla rispetto a quanto potrebbe o potrà causare, anche a breve termine, l’assenza di vere e tempestive politiche volte a contrastare le cause e attenuare gli effetti devastanti del global warming. Qualcuno si è pure spinto a interpretare in termini clinici quanto sta avvenendo, come l’effetto di una psicosi collettiva, altri, secondo una prospettiva più politica, come la logica conseguenza del sistema capitalistico di produzione di notizie (ovviamente al servizio del regime biopolitico dominante).
Si tratta di letture o interpretazioni che, anche in ragione della loro natura generica, possono essere considerate alla stregua di teoremi ideologici; sicuramente non sono gran che utili per la comprensione del fenomeno mediatico cui in questi tempi assistiamo. Meglio è assumere un atteggiamento più analitico, con l’obiettivo di mettere a fuoco e confrontare fra loro fatti e argomenti presentati nei testi, nei dibattiti e nelle prese di posizione sulle due emergenze.
Il pericolo di contagio attiene per così dire alla narrazione minuta delle nostre singole vite, e questo spiega la reattività immediata sia individuale sia collettiva. Sull’altro lato, le minacce di catastrofi ambientali globali riguardano le grandi narrazioni dell’esistenza, ossia il senso, il destino e addirittura la sopravvivenza di homo sapiens, e in quanto tali non assumono un carattere d’urgenza. Nondimeno, proprio in ragione della dimensione globale dei due avvenimenti, risulta importante cogliere gli elementi di continuità o al contrario di significativa discontinuità fra i discorsi che li concernono.

Fra i diversi aspetti da considerare, di maggiore importanza mi sembra essere quello relativo al valore attribuito alle scienze. Nelle ultime settimane si sono moltiplicati gli appelli alla razionalità e quindi a riporre fiducia nella ricerca scientifica, a detta di tutti la sola in grado di dare indicazioni attendibili e fornire rimedi contro il dilagare di nuove, eventualmente devastanti patologie. Questo non solo con buona pace dei cosiddetti NoVax, ma anche nonostante la memoria dei non pochi errori, a volte gravidi di conseguenze, in cui la scienza medica, la chimica e la biologia sono incorse in passato (ovviamente al netto di un ben maggiore numero di progressi e benefici recati all’intera umanità). Ecco, proprio a questo riguardo balza all’occhio una significativa discontinuità: da un lato un’ampia e diffusa fiducia nella scienza in ordine ai pericoli di pandemia, dall’altro uno strisciante scetticismo, che spesso assume la forma di aperto negazionismo, in ordine alle ricerche e alle prognosi della scienza climatologica. Benché probabilmente minoritario, il cosiddetto climascetticismo riesce sempre e nuovamente a “piazzare” le sue tesi e anche a fare breccia, spesso utilizzando a dir poco disinvoltamente concetti chiave in ambito scientifico ed epistemologico. Così si asserisce che le ipotesi dei climatologi sono soltanto opinioni, ignorando o sottacendo che la nozione di ipotesi scientifica ha uno statuto epistemologico ben preciso, per niente assimilabile alla valenza di semplice supposizione o fantasticheria che lo stesso termine ha o può avere nell’uso quotidiano. Non diversamente accade quando si obietta che le risultanze della climatologia scaturiscono da meri modelli e mere simulazioni, cioè da congetture, anche qui ignorando o sottacendo che le scienze dure operano essenzialmente con simulazioni, modelli, calcoli probabilistici, misurazioni e dati statistici, i quali e le quali sono scientifici non solo perché sono falsificabili nel senso popperiano dell’aggettivo, ma soprattutto perché richiedono un continuo processo di aggiustamento, precisazione e alimentazione con nuovi dati osservativi. Anche sulla nozione di probabilità, la quale ricorre ripetutamente nei rapporti dell’IPCC, si equivoca spesso e volentieri, insinuando la sinonimia probabile = possibile, quando invece quella di probabilità è una nozione scientifica chiaramente codificata. Infatti, per la scienza probabile implica una probabilità maggiore del 66%, molto probabile una probabilità maggiore del 90%, estremamente probabile una probabilità maggiore del 95% e praticamente certo una probabilità oltre il 99%. Nei vari rapporti dell’IPCC che si sono succeduti negli anni, l’influenza dei gas serra prodotti dall’attività umana sul cambiamento climatico è stata inizialmente qualificata come discernibile, quindi come probabile, molto probabile e infine come estremamente probabile. Rimane quindi un margine di errore, che però è insito nella ricerca scientifica, l’assenza della possibilità di falsificazione empirica delle sue teorie e previsioni implicando necessariamente la fuoriuscita dal sistema della scienza.

Come spiegare allora la fiducia nella capacità delle scienze di tracciare la via d’uscita dalla crisi da virus, da un lato, e il diffuso scetticismo e anche l’aperta ostilità quando la scienza ci parla di clima, dall’altro? La distinzione fatta sopra fra narrazione minuta e grande narrazione dell’esistenza, può fornire qualche utile elemento per dare una risposta alla nostra domanda, ma ovviamente non basta. Facciamo qualche passo avanti se osserviamo che con le pestilenze l’uomo ha una millenaria esperienza, mentre i possibili o probabili disastri da riscaldamento climatico su scala globale che vanno annunciandosi costituiscono un novum in assoluto. Ora, siccome per fare fronte a problemi assolutamente nuovi difficilmente possiamo ricorre a vecchie soluzioni, ecco che si apre un vasto spazio d’incessante quanto spaesante incertezza e rischio.
Sulla scorta di questo secondo tipo di considerazioni possiamo tentare una quantomeno provvisoria chiusura del cerchio: i dati osservativi e le valutazioni predittive che i climatologi ci propinano da alcuni anni vanno progressivamente assumendo un carattere pericolosamente prescrittivo per la politica e per le forme di vita che essa ha sin qui promosso e reso possibile – talché una risposta, reazione o strategia di contrasto e rimozione consiste nel mettere in dubbio la validità scientifica precisamente di quei dati e di quelle valutazioni. Per non vedere si insinua che lo strumento di osservazione è taroccato, che è un po’ quanto sentenzia un vecchio detto tedesco: ciò che non ha da essere, non può essere (Es kann nicht sein, was nicht sein darf).

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