Clima e forme di vita

In occasione della giornata odierna dello sciopero per il clima, posto uno statement al riguardo da parte del filosofo Raffaele Scolari (vedi anche qui).


Guest post di Raffaele Scolari

Recentemente Christoph Blocher (il leader ideologico del partito svizzero dell’estrema destra populista dell’UDC) ha affermato che gli allarmi e le diffuse preoccupazioni per lo stato del clima sono l’effetto di un’isteria collettiva, di una moda che, benché ben orchestrata dai soliti ambienti, presto passerà. Bontà sua! Non si può che sperare che abbia ragione, che il pericolo possa a breve essere riconosciuto come inesistente o comunque come assai limitato. Se non fosse che giorno per giorno le prove si accumulano, che i segnali dei mutamenti climatici in atto si fanno sempre più chiari e incontrovertibili. Molti aspetti sono ancora da chiarire, in particolare riguardo ai modi e ai tempi con cui il riscaldamento globale spiegherà effetto, ma sul fatto che in tempi storici si stiano producendo mutamenti che in epoche passate si produssero in tempi geologici la comunità scientifica è pressoché unanime. Occorre poi aggiungere che anche in assenza del Global warming, lo stato della biosfera presenta molte minacciose incognite per il futuro: estinzione di numerosissime specie viventi, acidificazione dei mari, ammorbamento dei suoli agricoli, scioglimento dei ghiacci eterni, riduzione e contaminazione delle riserve di acqua dolce, aumento degli eventi climatici estremi, ecc.

La messa in discussione e anche la negazione di quanto la climatologia va ormai da qualche decennio asserendo e dimostrando merita qualche riflessione. Se cinquanta e più anni fa, la neutralità e obiettività della scienza era oggetto di discussione e di contestazione soprattutto a sinistra dello spettro politico, oggi i fronti si sono capovolti: i dati, le ricerche, le osservazioni e le simulazioni scientifiche sono accusate di tendenziosità, quando non di essere viziate da assunti ideologici e da intenti complottistici, prevalentemente da schieramenti e personalità di destra. Come si spiega questa inversione?
Una possibile risposta va ricercata nel fatto che la crisi climatica mette in questione le forme di vita rese possibili e promosse dal sistema economico e politico uscito vincente dalla Guerra fredda. Non sussistono dubbi sul fatto che le minacce che con sempre maggiore chiarezza si profilano all’orizzonte potranno essere, se non proprio disattivate, quantomeno attenuate mediante l’innovazione tecnologica, ma anche e probabilmente soprattutto modificando i comportamenti sia individuali sia collettivi, ossia mediante una profonda riforma delle forme di vita, delle pratiche economiche, culturali e sociali oggi dominanti e che a torto sono considerate immodificabili.


Il riscaldamento globale e in genere la crisi ambientale pongono all’ordine del giorno questioni tanto radicali ed essenziali da rendere alla fin fine antiquate le diatribe fra fautori di un maggiore o minore interventismo statale, di più o meno regolamentazioni e divieti. L’uso globalizzato del mondo è oggi prevalentemente consumo dello stesso; conseguentemente, quella che la macchina mondiale del mercato e i suoi paladini promuovono è la libertà di consumare e non già la libertà (umanistica) fondata sulla coscienza, l’immaginazione e l’indipendenza da ogni asserita verità teo- o ideologica.
Non possono essere gli appelli ad assumere comportamenti virtuosi a determinare un profondo cambiamento negli usi del mondo; questo per molteplici ragioni, in primo luogo perché, fintanto che le coscienze non si sentono concretamente parte di un’azione e di un corpo collettivi, le sollecitazioni tendono a cadere nel vuoto o comunque a coinvolgere solo gruppi minoritari di popolazione. Del pari non può essere la politica e in particolare il sistema rappresentativo a produrre la svolta. Anche qui le ragioni sono molteplici; la prima, a mio giudizio, è data dal fatto che gli stili di vita non possono essere riformati per decreto, ossia delegando a pochi decisori il compito di stabilire come debba vivere la moltitudine. Un’altra ragione è la dilagante disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni democratiche e di una macchina-stato necessariamente sempre più complessa e sempre meno in grado di stimolare la partecipazione. Una terza ragione è la crescente debolezza degli stati nazionali rispetto al sistema del mercato globale e agli automatismi che lo contraddistinguono ¬– il che, peraltro, dà la misura di quelle che sono le vere minacce alla libertà di scegliere come vivere e fare comunità.


John Maynard Keynes sosteneva che l’inevitabile non si verifica quasi mai, perché quel che accade davvero è l’imprevedibile. Ciò non deve tuttavia indurre al fatalismo, tanto più che oggi la vera grande potenza è il misurabile, ossia la tecno-scienza, la quale in tema di cambiamenti climatici ci avverte che il business as usual ci condurrà di qui a non moti decenni a +5 gradi. Imprevedibile è come potrebbero comportarsi gli umani il giorno che dovessero essere confrontati con immani sconvolgimenti su scala planetaria; nondimeno, osservando il presente, è possibile avanzare due ipotesi. La prima, che potrebbe portare il titolo “La barca è piena”, vede i paesi ricchi, tecnologicamente e militarmente attrezzati per fare fronte anche a situazioni estreme, chiudersi e respingere milioni e milioni di miserabili in fuga da regioni della terra ormai assolutamente inospitali; la seconda il formarsi di un nuovo corpo sociale capace di smuovere la società, la politica e le istituzioni verso nuove forme di vita.
I giovani che oggi un po’ ovunque nel mondo scioperano per il clima potrebbero essere le avanguardie di detto nuovo corpo sociale. Essi sentono che il tempo stringe, anzi, riprendendo il titolo dell’ultimo libro di Luca Mercalli, che “non c’è più tempo”. Occupando gli spazi pubblici ormai ridotti a meri spazi del transito e del consumo, per farne luoghi in cui la moltitudine può appunto fare corpo, sembrano prefigurare ciò che potrebbe produrre il non più dilazionabile mutamento.

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