Profughi climatici
Guest post di Marco Morosini
Finisce un ennesimo anno estremo per i cambiamenti climatici e forse cruciale per gli accordi globali mirati al contenimento del problema. Ma finisce anche un anno estremo per i fenomeni migratori.
Quanti disperati cercheranno di raggiungere l’Unione europea per mare anche nel 2016? Quanti purtroppo moriranno? Quest’anno quasi un milione di migranti hanno affrontato le acque del Mediterraneo meridionale a bordo di imbarcazioni precarie. Migliaia di loro sono morti annegati. Intanto, sotto quelle stesse acque, la scoperta di nuovi tesori d’idrocarburi alimenta la sete di un’accelerazione della crescita della produzione, dei consumi e del PIL dell’Europa, il continente più ricco del pianeta.
L’euforia con la quale il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi ha recentemente annunciato la scoperta del più grande giacimento di gas del Mediterraneo ha trovato un ironico contraltare durante l’apertura della COP21, durante la quale ha vantato il ruolo dell’Italia nella lotta contro i cambiamenti climatici. Da un lato si piangono le vittime dei “gommoni della morte”, dall’altra si esulta alla notizia della scoperta di nuove riserve di combustibili fossili. In pochi colgono il tragico legame tra questi due fenomeni.
Secondo i demografi, da qui a qualche anno, le attuali migrazioni in direzione dell’Europa ci appariranno assai modeste rispetto a quelle, future e probabili, di decine di milioni di migranti climatici.
La combustione di carbone, petrolio, gas fossile e legname rilascia nell’atmosfera sempre più anidride carbonica, il principale gas responsabile delle alterazioni climatiche causate dall’uomo, dopo il vapor acqueo. Queste alterazioni producono un numero talmente elevato di sconvolgimenti sociali, ecologici ed economici che quest’articolo non basterebbe per elencarli. Un unico esempio: in molti paesi, soprattutto i meno ricchi, il terreno diventa arido, i deserti si allargano, il bestiame muore e le risorse idriche diminuiscono o si contaminano.
L’attuale ritmo di emissioni potrebbe provocare un innalzamento di oltre un metro del livello dei mari in questo secolo, ma anche solo un innalzamento di qualche centimetro colpisce centinaia di milioni di persone, favorendo le inondazioni e causando l’ingresso d’acqua salata nelle falde freatiche d’acqua dolce.
Una proposta dalla Svizzera
In molti paesi, milioni di ex agricoltori o ex allevatori migrano verso le città, spesso provocando tensioni sociali. Rivolte e repressione determinano, a loro volta, ondate di violenza. La Siria, per esempio, ha conosciuto la sua peggiore siccità tra il 2006 e il 2011. Buona parte del bestiame è morta e uno o due milioni di abitanti hanno lasciato le campagne per riversarsi, senza lavoro, nelle città. L’acqua è diventata una merce rara e difficilmente accessibile. Le proteste della popolazione sono state represse nel sangue, il che è stato una delle cause della guerra civile per cui la popolazione siriana sta abbandonando il paese.
Se i rifugiati politici sono riconosciuti e protetti dalla Convenzione di Ginevra del 1951, i migranti vittime della degradazione dell’ambiente non godono di protezione giuridica. Per risolvere questa situazione, i rappresentanti di 75 stati si sono riuniti il 12 e 13 ottobre scorso a Ginevra per una conferenza globale durante la quale è stata presentata un’ “agenda di protezione” dei rifugiati climatici e vittime di catastrofi naturali. Quest’agenda è il risultato di consultazioni regionali portate avanti dalla Nansen Initiative, un organismo creato da Svizzera e Norvegia nel 2012.
Secondo il centro di ricerca svizzero Foraus, la Svizzera dovrebbe dare seguito alla Nansen Initiative per promuovere un adeguamento del diritto internazionale che permetta di riconoscere e proteggere i rifugiati ambientali. Parallelamente, Foraus incoraggia a ridefinire la migrazione come un fenomeno dalle molteplici cause, spesso provocato dall’interazione di fattori sociali, economici, politici e ambientali.
Il dramma dei rifugiati esige tre azioni ugualmente necessarie: il soccorso, la fine di alcuni comportamenti di cittadini, aziende, eserciti e governi dei paesi ricchi che provocano la fuga e la migrazione di milioni di disperati e, infine, la diffusione tra i cittadini europei di informazioni sulle cause vicine o lontane delle migrazioni forzate. Se si dimenticano le ultime due azioni, la prima diventa sempre più difficile.
Se la stampa, gli insegnanti e le personalità del mondo istituzionale e culturale ci ricordassero più spesso le nostre responsabilità passate e presenti nelle disgrazie che colpiscono il “sud”, forse un numero maggiore di cittadini sarebbe meno ostile nei confronti dei rifugiati e la loro antipatia potrebbe lasciare spazio a comprensione e generosità.
La triplice responsabilità dell’occidente
La responsabilità dell’occidente nelle migrazioni è triplice: il colonialismo, la globalizzazione e lo sconvolgimento climatico. Le invasioni militari finalizzate all’esercizio di un dominio politico, la tratta degli schiavi e lo sfruttamento delle risorse naturali hanno prodotto il colonialismo. Per fare un esempio, lo storico Stuart Laycock ha documentato come il Regno Unito, se si escludono 22 paesi, è intervenuto militarmente in tutto il mondo.
A volte abbiamo sfruttato i conflitti etnici a nostro favore, abbiamo arbitrariamente creato frontiere e stati, sviluppando delle strutture economiche solo a nostro vantaggio. Le numerose conseguenze dei crimini coloniali si fanno sentire ancora oggi e non sono compensate da certi apporti coloniali di modernizzazione né dai nostri modestissimi aiuti allo sviluppo. Al colonialismo è seguito il neocolonialismo: protezionismo economico, pratiche e accordi economici iniqui, esportazioni di armi verso i peggiori regimi, corruzione, lobbying nei confronti dei governi, sostegno ai dittatori, colpi di stato contro democrazie, bombardamenti e invasioni militari hanno destabilizzato interi paesi.
La globalizzazione, che è in buona parte americanizzazione ed europeizzazione, ha cambiato il mondo sia nel bene sia nel male. La sua ricetta è un mercato unico di beni di consumo uniformi, un mezzo di comunicazione dominante (internet), una lingua e una cultura ugualmente dominanti (anglosassoni) e infine un pensiero economico unico. Investendo centinaia di miliardi di euro in pubblicità, i paesi ricchi inondano il pianeta, compresi i paesi poveri, d’immagini mercantilistiche che promuovono uno stile di vita idealizzato, apparentemente accessibile a tutti e sinonimo di felicità e gioia. Come stupirsi allora che, tra i miliardi di poveri che finora si accontentavano di poco, centinaia di milioni siano pronti a tutto pur di raggiungere quest’eldorado? Volevamo consumatori, arrivano profughi.
Infine, gli effetti degli stravolgimenti climatici provocati dall’uomo sono una causa sottovalutata e sempre più importante degli esodi e delle migrazioni. Sfortunatamente, le popolazioni che sono più vittime del cambiamento climatico sono anche quelle che hanno meno contribuito a crearlo. In media pro capite, le loro emissioni di gas serra sono tra cinque e dieci volte minori di quelle cittadini dei paesi industrializzati.
Dal punto di vista scientifico e politico, non dovremmo considerare solo le emissioni antropiche recenti, ma anche quelle verificatesi dall’inizio della rivoluzione industriale, perché i loro effetti si trascinano per secoli. Considerando dunque le emissioni di cui sono storicamente responsabili i paesi industriali, lo scarto tra le responsabilità degli abitanti dei paesi ricchi e di quelli dei paesi poveri è ancora maggiore. Per questo motivo alcuni economisti e alcuni paesi spingono affinché le responsabilità e i diritti d’emissione di gas serra siano attribuiti indipendentemente dal luogo e dal tempo in cui un abitante del pianeta è vissuto, vive o vivrà.
Troppe energie fossili da bruciare
Un numero sempre maggiore di scienziati, tecnici ed economisti ritiene necessaria e possibile, nell’arco di vari decenni, la sostituzione di combustibili fossili con un misto di energie rinnovabili. Secondo i geologi, il limite delle riserve accessibili di combustibili fossili non è il loro esaurimento a breve termine. Ritengono infatti che l’umanità ne abbia estratti meno della metà. Il vero limite riguarda le catastrofiche conseguenze climatiche che si verificherebbero se bruciassimo tutti i combustibili fossili disponibili sul nostro pianeta.
“Il problema è che abbiamo troppi combustibili fossili e un mercato completamente distorto da sussidi nascosti”, dichiarava recentemente Marco Mazzotti, direttore dell’Energy science center del Politecnico federale di Zurigo. Nonostante i climatologi ci raccomandino di lasciare i combustibili là dove sono, la nostra avidità di energia ci spinge a intensificare sempre di più le esplorazioni e le estrazioni. Ci dimentichiamo tuttavia che le emissioni di gas serra di oggi saranno le principali cause degli esodi di domani.
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