L'ultima chiamata

«Stiamo mancando l’obiettivo dei 2° C e gettando alle ortiche la possibilità di limitare il riscaldamento terrestre e le sue conseguenze (...) Dobbiamo abbandonare le fonti energetiche fossili e dare inizio alla quarta rivoluzione industriale. Mancare questo obiettivo potrebbe comportare un aumento dei conflitti locali a causa della migrazione».





A colloquio con il fisico del clima Thomas Stocker sulla Conferenza di Parigi e sulle conseguenze dell’aumento delle temperature a livello globale. Thomas Stocker è professore presso l’Istituto di fisica dell’Università di Berna, dove dirige la divisione di fisica climatica e ambientale. Nato a Zurigo nel 1959, studia fisica ambientale al Politecnico federale di Zurigo dove consegue nel 1987 il dottorato. Dal 1998 fa parte del gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico dell’ONU (IPCC). Dal 2008 al 2015 è copresidente del primo gruppo di lavoro (WG1) dell'IPCC.




A Parigi si sta davvero decidendo il futuro climatico delle prossime generazioni: dei nostri figli e nipoti?

No, è solo il primo passo. A Parigi, la speranza è che si trovi un accordo su un documento vincolante che obblighi le nazioni a ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Gli obiettivi dovranno considerare lo stato di sviluppo dei vari Paesi. Gli Stati industrializzati, per esempio, dovranno ridurre più in fretta le loro emissioni rispetto ai Paesi del Sud. Questi ultimi devono avere la possibilità di lottare contro la povertà e sviluppare le infrastrutture. Non tutte le nazioni del mondo hanno le stesse capacità per investire nelle nuove tecnologie mediante le quali limitare il surriscaldamento terrestre. L’accordo di Parigi è il primo passo, ma è un passo importantissimo.

Lo scopo è di giungere alla prima intesa universale sul clima per ridurre le emissioni e limitare il riscaldamento terrestre globale di 2° C rispetto alla media preindustriale. I capi di Stato sono pronti a fare questo storico passo?
Io me lo auguro. La mia speranza è sorretta da tre elementi. Adesso i capi di Stato sono informati in maniera molto dettagliata su ciò che significa il cambiamento climatico a livello globale, sulle cause e sulle scelte a nostra disposizione per ridurre gli effetti del surriscaldamento terrestre e, infine, su che cosa vuole dire limitare l’innalzamento della temperatura di 2° C. Per la prima volta nella storia dell’umanità anche chi è alla testa delle istituzioni morali ha fatto dichiarazioni molto importanti sui rischi del cambiamento climatico provocato dall’uomo. Per esempio, nell’enciclica di quest’anno papa Francesco presenta il mutamento del clima come un pericolo per l’uomo e la natura. Anche i leader delle multinazionali, delle imprese attive a livello mondiale dichiarano che il surriscaldamento terrestre avrà delle ripercussioni negative sul loro modello economico.

E il terzo elemento da cui nasce questa speranza qual è?
La discussione sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra a livello nazionale si è finalmente sbloccata grazie al nuovo approccio basato sugli obblighi concreti per tutti gli Stati, il cosiddetto Intended Nationally Determined Contributions (INDC). Il mio ottimismo sul vertice di Parigi nasce anche da questo rallegrante sviluppo dei negoziati. Sono quindi speranzoso che i capi di Stato sapranno accordarsi su un documento vincolante e valido giuridicamente. È assolutamente necessario invertire la rotta per ridurre gli effetti del cambiamento climatico.

Se i capi di Stato, i vertici delle istituzioni morali e il settore privato hanno capito che è necessario diminuire le emissioni di CO2, il merito è anche della comunità scientifica, di cui lei fa parte, che rispetto al passato ha informato in maniera migliore chi ora è chiamato a prendere delle decisioni.
Noi abbiamo informato continuamente dal 1990, anno in cui il gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (IPCC) ha pubblicato il suo primo rapporto. Questo documento è uscito per preparare la prima Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro, tenuta nel 1992. Da allora al 2015, l’IPCC ha pubblicato cinque rapporti. Ma queste valutazioni non sono purtroppo le uniche fonti di informazione a cui possono attingere i politici. In questo momento penso anche ai laboratori di idee, i Think Tank, ai lobbisti e a tutti coloro che hanno continuamente negato e messo in dubbio il metodo scientifico e il lavoro dell'IPCC. I responsabili delle decisioni politiche hanno a disposizione una quantità enorme di informazioni. Ma è solo la scienza che offre un’evidenza precisa e innegabile. Dobbiamo ridurre le emissioni di CO2 se vogliamo evitare il peggio.

Che cosa significa il peggio? Lei fa parte dell’IPCC che regolarmente valuta, raccoglie e trasmette le informazioni e i risultati ai politici e all’opinione pubblica. Quali sarebbero le conseguenze se non si dovesse trovare un accordo a Parigi?
La conseguenza è molto semplice, ma anche spaventosa: stiamo mancando l’obiettivo dei 2° C e gettando alle ortiche la possibilità di limitare il riscaldamento terrestre e le sue conseguenze. Ricordo, per esempio, la variazione delle precipitazioni, l’impossibilità di accedere all’acqua come risorsa naturale, ma anche lo scioglimento delle calotte polari o dei ghiacciai, che provocherà l’innalzamento del livello del mare con ripercussioni per le regioni costiere di tutto il pianeta. Se manchiamo l’obiettivo dei 2° C, ci saranno delle zone in cui non sarà più possibile adattarsi alle mutate condizioni climatiche. Ciò potrebbe comportare un aumento dei conflitti a livello locale perché, per esempio, le persone devono abbandonare le coste a causa dell’innalzamento degli oceani o per l’assenza di fonti d’acqua. La conseguenza sarà la migrazione di intere popolazioni e oggi sappiamo molto bene quali sono le sfide per l’umanità derivanti da questo fenomeno.

Lei finora ha parlato soprattutto dell’impatto negativo del cambiamento climatico. Ma l’innalzamento della temperatura globale potrebbe favorire alcuni Paesi che in futuro potrebbero, per esempio, aumentare la loro produzione agricola? 
Prendiamo l’esempio della cintura del grano nel Nordamerica. Si sa che con il cambiamento climatico questa fascia si sposterà verso settentrione. Alcune regioni del Canada potrebbero quindi iniziare a coltivare il grano, ma per ora sono ancora sprovviste delle infrastrutture necessarie. Per approfittare del cambiamento climatico, il Canada dovrebbe quindi investire enormi quantità di denaro per costruire nuovi impianti e installazioni. Mentre gli USA dovrebbero inventarsi un’altra attività economica. Se tiriamo le somme, alla fine nessuno ci guadagna.

La soluzione è l’abbandono delle fonti energetiche fossili?
Di primo acchito sembra una soluzione semplice, ma questa rinuncia potrebbe essere la più grande sfida per l’umanità. Spesso parlo della quarta rivoluzione industriale, della «decarbonizzazione» o della «sostenibilizzazione», in riferimento all’abbandono delle fonti energetiche fossili. La storia ci insegna che le tre rivoluzioni industriali precedenti, ossia la meccanizzazione, l’elettrificazione e la digitalizzazione, hanno creato grandissime opportunità, generando enormi profitti per tante persone, modificando relazioni di potere a livello globale, e hanno sempre migliorato la qualità della vita. Io sono convinto che anche la quarta rivoluzione industriale produrrà effetti positivi per tutta l’umanità, ed è l’unica possibilità per limitare i preoccupanti effetti del riscaldamento continuo. Ora è importante dare avvio a questa nuova era priva di energie fossili. Il primo passo importante lo dobbiamo compiere a Parigi.

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