Anatomia di una catastrofe
L’ultima distruzione di boschi di dimensioni epocali balzata alle cronache ha avuto luogo nel Veneto a novembre. Perché è accaduta?
Guest post di A. Focarile
Come si spiega l’evento balzato alle cronache a novembre che ha messo in ginocchio il Veneto? Vediamo insieme i presupposti geografici, gli antefatti meteorologici e le conseguenze ambientali e forestali.
L’Adriatico è una catinella profonda solo 25 metri tra Venezia e Trieste, più a Sud, 200 metri tra Ancona e il Gargano. È un bacino che si surriscalda repentinamente (fino a 27°C) generando venti sciroccali che sono convogliati verso Nord, fino a essere «canalizzati» nelle valli orientate verso le Alpi.
Nei primi giorni dello scorso novembre, uno scirocco a 180 km orari risale dalle colline di Conegliano (patria di un vino generoso) lungo la valle del Piave fino a Cortina d’Ampezzo, sconvolgendo boschi, abitati, corsi d’acqua. Il Cadore, provincia di Belluno, 1100 chilometri quadrati, vede messo in ginocchio un territorio economicamente fiorente di iniziative, uno dei più vasti comprensori sciistici delle Alpi. Quello che impressiona maggiormente è l’ampiezza territoriale coinvolta e l’insistenza temporale degli eventi meteorologici: 1700 millimetri di pioggia in pochi giorni.
Il Cadore, un vasto territorio coperto di un ricco ed esteso manto boschivo, i cui quattro quinti sono di proprietà privata o comunale, governati e gestiti dalle «Regole» comunitarie di antica memoria. Sempre rispettate dalla Repubblica di Venezia, che ricavava il legname pregiato per la sua flotta e per l’edificazione della città. A seconda dell’altitudine, i boschi del Cadore hanno tipologie molto differenziate, e che in gran parte hanno determinato l’ampiezza e le modalità del disastro forestale. La rutilante e calda tavolozza dei colori autunnali esibita da pioppi, betulle, aceri e faggi fino a una certa quota, contrasta ai primi di novembre con il cupo degli abeti in alto. In tale periodo, e grazie alle miti temperature, il bosco di latifoglie è ancora ricco di fogliame. Ciò crea un effetto «vela» rispetto ai forti venti di scirocco, favorendo lo schianto e l’eradicazione degli alberi.
La presenza del dominante abete rosso (peccio, Picea excelsa) è stata notevolmente favorita dall’uomo nel corso del tempo. Albero boreale al pari del larice (la loro patria d’origine è la taiga siberiana), lentamente ha popolato l’Europa negli ultimi ottomila anni. Per le sue qualità tecnologiche: tronchi rettilinei e privi di nodi, dalla relativamente rapida crescita, l’abete rosso è l’albero che ha costituito fin dal 1700 lo standard della selvicoltura centro-europea, quando il pensiero forestale austro-tedesco era dominato dall’insistenza del concetto di «coniferazione». Piantare abeti rossi era l’imperativo. Concetto tecnico ripreso da francesi, italiani e dai Paesi balcanici: dalla Slovenia alla Bulgaria. Interi massicci forestali sono stati creati con la dominante presenza dell’abete rosso, generando spesso sgraditi problemi di gestione. Ma il tallone di Achille di questa pianta è la sua radicazione superficiale «a pizza», testimonianza di una vita in territori privi di forti venti. Tale caratteristica penalizza la staticità dell’albero quando esso raggiunge una certa età e quindi statura.
In caso di forte vento, come accaduto a lungo nel Cadore, la meteora scalza la pianta; la fa crollare con un reciproco effetto«domino» (vedi disegno qui sotto). Malgrado la grande capacità di adattamento ai fattori ambientali (plasticità ecologica), l’abete rosso in molti settori alpini si sta rivelando una essenza ecologicamente fuori posto, e non più in armonia con le situazioni climatiche attuali. Donde la congenita debolezza fisiologica, che crea la progressiva deperienza dell’albero.
Insorgono anomalie organiche: la differente pressione esercitata nei canali adducenti la resina. A sua volta, e quale conseguenza primaria, si ha un’alterazione dei componenti chimici della stessa: con fermentazione e mutazione delle qualità olfattive. Questo fenomeno è all’origine della massiccia comparsa degli insetti xilofagi (= che si cibano del legno), principalmente dei cosiddetti «bostrici», coleotteri scolitidi. Effetto della deperienza, e non causa della stessa, come ufficialmente si persiste ad affermare, fornendo un’informazione non veritiera. Perché è accaduto? La sequenza inesorabile degli eventi, che hanno sconvolto il Veneto e, in parte il Trentino, è evidenziata dai seguenti fattori.
Cause primarie: consumo reiterato di energie fossili non rinnovabili; aumento dei gas serra (principalmente anidride carbonica [CO2] e metano); conseguenti cambiamenti climatici con accentuata loro velocizzazione nel corso del tempo sempre più ravvicinato; aumento della temperatura e tropicalizzazione del Mediterraneo (27°C); aumento del vapore acqueo a causa di una maggiore evaporazione dal mare; contrasto della temperatura del mare rispetto a quella della terra.
Conseguenze locali: formazione, con effetti disastrosi, di nubifragi continuati, trombe d’aria, bombe d’acqua; esondazioni dei corsi d’acqua; forti venti sciroccali, che hanno causato lo schianto di milioni di alberi e la perdita di un milione di metri cubi di legname (cifra errata per difetto!); massiccia presenza di abete rosso la cui radicazione superficiale ha favorito lo schianto in presenza di forti venti come accaduto in Cadore; alterato chimismo dovuto a deperienza (alberi con radici a nudo). Installazione dei «bostrici» e di altri insetti xilofagi.
Ma l’uomo, creatura inerme e indifesa di fronte a tali eventi catastrofici, si dimostra spesso incapace di riflettere e agire razionalmente sulla causalità degli eventi stessi.
Colle Santa Lucia, provincia di Belluno, dopo la tempesta del 7 novembre 2018 |
Guest post di A. Focarile
Un vento anomalo, che risaliva da Sud il versante della montagna, ha abbattuto piante di oltre un secoloannotava Reinhold Messner dal suo castello in Alto Adige. E aggiungeva:
Il cambiamento cui assistiamo fa paura.Sì, un grande alpinista ha paura, e torna a sentirsi una creatura inerme e indifesa di fronte ai grandiosi fenomeni della Natura. Una catastrofe climatica, un incendio, un terremoto, la caduta di un fulmine oppure di una valanga, un’alluvione irrefrenabile, interi boschi che crollano schiantati da un vento che soffia e distrugge a velocità sconosciute finora nel territorio. Sono eventi che terrorizzano questa creatura, che ha tratto le sue origini da una brodaglia organica qualche miliardo di anni or sono. Sì, inerme e indifesa, nonostante le mirabolanti scoperte tecnologiche prodotte dal suo ingegno.
Come si spiega l’evento balzato alle cronache a novembre che ha messo in ginocchio il Veneto? Vediamo insieme i presupposti geografici, gli antefatti meteorologici e le conseguenze ambientali e forestali.
L’Adriatico è una catinella profonda solo 25 metri tra Venezia e Trieste, più a Sud, 200 metri tra Ancona e il Gargano. È un bacino che si surriscalda repentinamente (fino a 27°C) generando venti sciroccali che sono convogliati verso Nord, fino a essere «canalizzati» nelle valli orientate verso le Alpi.
Questa alterazione nel regime termico provoca violenti e improvvisi nubifragi in risalita dall’Adriatico e dal Mediterraneo, ancora caldi dopo l’estate, che sicuramente hanno fornito energia e vapore acqueo in quantità per la formazione continua dei temporali. Infine, l’interferenza dello scirocco con le montagne è in grado di esaltare le precipitazioni per il sollevamento forzato dell’aria umidaspiegava Luca Mercalli lo scorso autunno.
Nei primi giorni dello scorso novembre, uno scirocco a 180 km orari risale dalle colline di Conegliano (patria di un vino generoso) lungo la valle del Piave fino a Cortina d’Ampezzo, sconvolgendo boschi, abitati, corsi d’acqua. Il Cadore, provincia di Belluno, 1100 chilometri quadrati, vede messo in ginocchio un territorio economicamente fiorente di iniziative, uno dei più vasti comprensori sciistici delle Alpi. Quello che impressiona maggiormente è l’ampiezza territoriale coinvolta e l’insistenza temporale degli eventi meteorologici: 1700 millimetri di pioggia in pochi giorni.
Il Cadore, un vasto territorio coperto di un ricco ed esteso manto boschivo, i cui quattro quinti sono di proprietà privata o comunale, governati e gestiti dalle «Regole» comunitarie di antica memoria. Sempre rispettate dalla Repubblica di Venezia, che ricavava il legname pregiato per la sua flotta e per l’edificazione della città. A seconda dell’altitudine, i boschi del Cadore hanno tipologie molto differenziate, e che in gran parte hanno determinato l’ampiezza e le modalità del disastro forestale. La rutilante e calda tavolozza dei colori autunnali esibita da pioppi, betulle, aceri e faggi fino a una certa quota, contrasta ai primi di novembre con il cupo degli abeti in alto. In tale periodo, e grazie alle miti temperature, il bosco di latifoglie è ancora ricco di fogliame. Ciò crea un effetto «vela» rispetto ai forti venti di scirocco, favorendo lo schianto e l’eradicazione degli alberi.
La presenza del dominante abete rosso (peccio, Picea excelsa) è stata notevolmente favorita dall’uomo nel corso del tempo. Albero boreale al pari del larice (la loro patria d’origine è la taiga siberiana), lentamente ha popolato l’Europa negli ultimi ottomila anni. Per le sue qualità tecnologiche: tronchi rettilinei e privi di nodi, dalla relativamente rapida crescita, l’abete rosso è l’albero che ha costituito fin dal 1700 lo standard della selvicoltura centro-europea, quando il pensiero forestale austro-tedesco era dominato dall’insistenza del concetto di «coniferazione». Piantare abeti rossi era l’imperativo. Concetto tecnico ripreso da francesi, italiani e dai Paesi balcanici: dalla Slovenia alla Bulgaria. Interi massicci forestali sono stati creati con la dominante presenza dell’abete rosso, generando spesso sgraditi problemi di gestione. Ma il tallone di Achille di questa pianta è la sua radicazione superficiale «a pizza», testimonianza di una vita in territori privi di forti venti. Tale caratteristica penalizza la staticità dell’albero quando esso raggiunge una certa età e quindi statura.
In caso di forte vento, come accaduto a lungo nel Cadore, la meteora scalza la pianta; la fa crollare con un reciproco effetto«domino» (vedi disegno qui sotto). Malgrado la grande capacità di adattamento ai fattori ambientali (plasticità ecologica), l’abete rosso in molti settori alpini si sta rivelando una essenza ecologicamente fuori posto, e non più in armonia con le situazioni climatiche attuali. Donde la congenita debolezza fisiologica, che crea la progressiva deperienza dell’albero.
Cause primarie: consumo reiterato di energie fossili non rinnovabili; aumento dei gas serra (principalmente anidride carbonica [CO2] e metano); conseguenti cambiamenti climatici con accentuata loro velocizzazione nel corso del tempo sempre più ravvicinato; aumento della temperatura e tropicalizzazione del Mediterraneo (27°C); aumento del vapore acqueo a causa di una maggiore evaporazione dal mare; contrasto della temperatura del mare rispetto a quella della terra.
Conseguenze locali: formazione, con effetti disastrosi, di nubifragi continuati, trombe d’aria, bombe d’acqua; esondazioni dei corsi d’acqua; forti venti sciroccali, che hanno causato lo schianto di milioni di alberi e la perdita di un milione di metri cubi di legname (cifra errata per difetto!); massiccia presenza di abete rosso la cui radicazione superficiale ha favorito lo schianto in presenza di forti venti come accaduto in Cadore; alterato chimismo dovuto a deperienza (alberi con radici a nudo). Installazione dei «bostrici» e di altri insetti xilofagi.
Ma l’uomo, creatura inerme e indifesa di fronte a tali eventi catastrofici, si dimostra spesso incapace di riflettere e agire razionalmente sulla causalità degli eventi stessi.
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