Mare



Guest post di Luca Mercalli

Le vacanze estive per molti sono sinonimo di mare. Che la scelta cada su spiagge affollate o solitarie scogliere, sul Mediterraneo o negli atolli corallini, allorché ci si trova al cospetto dello sterminato orizzonte marino si ha l'impressione di riappacificarsi con la natura, di ritrovare una dimensione primitiva e incontaminata. Ma purtroppo non è più così: ormai anche le immensità oceaniche sono compromesse da un attacco senza precedenti da parte delle attività umane. Un tempo a preoccupare erano solo i classici scarichi fognari in prossimità di aree urbane prive di depuratori o gli sversamenti accidentali di idrocarburi dalle petroliere.


 Oggi i problemi del mare sono diventati più profondi e globali. I cambiamenti climatici aumentano la temperatura delle acque, ne innalzano il livello per la fusione dei ghiacciai e della dilatazione termica e causano lenti ma inesorabili mutamenti nelle correnti oceaniche. Le popolazioni dei piccoli atolli di Tuvalu, delle isole Carteret e di Kiribati sono condannate all'evacuazione per la graduale sommersione delle loro fragili terre e hanno chiesto asilo all'Australia o ad altre nazioni come "profughi climatici". I coralli patiscono le temperature più elevate, subendo il processo di sbiancamento, mentre nuove specie di pesci tropicali, dette "aliene" colonizzano aree marine dove un tempo non riuscivano a spingersi e riprodursi, scacciando quelle autoctone. La stessa anidride carbonica responsabile del riscaldamento globale, passata in un secolo da 300 a 400 parti per milione, si discioglie pure nelle acque, un po' come accade in una bibita gassata.
Ma le bollicine al mare non piacciono, in quanto ne aumentano l'acidità, minacciando la formazione del guscio di tutti i microrganismi planctonici con scheletro a base di carbonati. Sembra che le antiche estinzioni di massa abbiano avuto nell'aumento di acidità delle acque marine un importante e fatale innesco: è un problema di dimensioni enormi del tutto sottovalutato nel dibattito politico e nel mondo dell'informazione. E poi c'è la plastica: dal 1950 ne abbiamo disperso in acqua quantità inimmaginabili, attualmente ogni anno se ne producono nel mondo circa 250 milioni di tonnellate, una gran quantità di queste direttamente o indirettamente finisce negli oceani e si concentra in circa cinque vortici stazionari, due in Atlantico e tre nel Pacifico. I frammenti più grandi o galleggiano o affondano, minacciano molte specie ittiche e molti uccelli marini in quanto vengono ingerite e ne intasano lo stomaco non essendo digeribili. Ma la maggior parte di queste "isole" delle dimensioni di un continente è composta da una poltiglia di microframmenti che poi entrano nella catena alimentare e presto o tardi arrivano nel nostro piatto, veicolando sostanze tossiche, come gli interferenti endocrini. Nel mare si è buttato di tutto, lecitamente o illecitamente: da migliaia di chilometri di vecchie reti da pesca che fasciano i fondali in un groviglio inestricabile ai fusti di rifiuti tossico nocivi o nucleari, ai residuati bellici di guerre contemporanee. E dal mare si è pure pescato di tutto, al punto che molte zone sono desertificate e molte specie come il merluzzo e il tonno sono minacciate di estinzione.
Non è catastrofismo, ma cruda realtà: il fatto che l'acqua nasconda gran parte di questi misfatti è solo un modesto alibi, ma chi studia e indaga nei mari per proteggerli ormai ha raccolto queste prove in migliaia di pubblicazioni scientifiche e di rapporti internazionali. Un'inquietante sintesi di questo problema che si legge come un poliziesco ci è offerta da Nicolò Carnimeo, navigatore e docente all'Università di Bari, nel suo "Come è profondo il mare. La plastica, il mercurio, il tritolo e il pesce che mangiamo", pubblicato da Chiarelettere. È una lettura da fare in spiaggia, sotto l'ombrellone, per renderci responsabili e farci comprendere che una vacanza al mare è una cosa seria: dai nostri gesti dipende la vita del più grande custode di biodiversità e stabilità climatica del pianeta. E se volete delle superbe immagini che accompagnino le parole di Carnimeo, c'è il documentario-denuncia "Pianeta Oceano" del celebre fotografo francese Yann Arthus Bertrand.

 Insomma, l'oceano è grande e popolato di giganteschi mostri sonnecchianti: ci vogliono secoli a svegliarli, ma quando ciò accade non è più possibile dominarli. Abbandonare un banale sacchetto di plastica al vento può significare la morte di una tartaruga, reti, vasi per fiori, giocattoli e mobili da giardino sono stati trovati negli stomaci di balenottere e delfini, un accendino o un tappo di plastica può uccidere un albatros. Un nuovo sport, il Flyboard, dà la misura dell'indifferenza e dell'arroganza umana verso questi delicati ecosistemi: un divertimento fatto di evoluzioni su una moto d'acqua a propulsione subacquea e aerea. Un aggeggio rumorosissimo che disturba la fauna marina (e pure le persone che del mare vorrebbero ascoltare solo le onde) e inquinano acqua e aria. Se vogliamo evitare di peggiorare la situazione e desideriamo consegnare ai nostri figli un mare dove ci si possa bagnare e dal quale ci si possa nutrire senza ammalarci, dobbiamo riflettere su questi segnali. Ce lo chiede la scienza con urgenza, come il recente lavoro di Andrés Cózar dell'Università spagnola di Càdiz, e dei suoi collaboratori, uscito sui Proceedings della National Academy of Sciences americana, che analizza il carico di rifiuti di plastica negli oceani. Ce lo chiedono più semplicemente il nostro buon senso, la nostra sensibilità, la nostra visione di futuro.

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