Dopo Doha I - Bicchieri mezzi vuoti
La COP18, la Conferenza della Parti della Convenzione sul Clima che si è tenuta a Doha dal 27 novembre all’8 dicembre, ha avuto un esito in chiaroscuro ma con sfumature maggiormente tendenti al grigio fumo di Londra.
I toni dimessi sono riconducibili perlopiù alla viva percezione che la conferenza abbia prodotto più parole che fatti. Certo, ha evitato il peggio salvando Kyoto e prolungandolo per un secondo periodo per circa il 15% dei paesi produttori di gas serra: UE, Norvegia, Svizzera, Australia e pochi altri e non rinnovarlo sarebbe stato un affronto per i paesi poveri, sempre in attesa di USA, Cina, India...
Ma continua a non rispondere concretamente al grave problema dell'ipoteca sul cambiamento climatico, perché gli obiettivi di riduzione delle emissioni – che non sono stati ritoccati – restano insufficienti e non permettono di frenare il GW.
La traiettoria è lo scenario peggiore in termini di emissioni e anche se non continuasse a lungo ad esserlo, l'inerzia fa in modo che già oggi gli effetti climatici più probabili oramai si situino molto più vicino ai +4 gradi entro fine secolo (vedi anche qui), rispetto a quello che si poteva ritenere solamente poco tempo fa. Qualcosa che l'uomo non ha mai visto e dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche (vedi ad es. qui, tratto dall'interessante speech che Raymond Bradley ha tenuto lo scorso ottobre a Berna nell'ambito del meeting finale del programma di ricerca climatica NCCR Climate, speech dal titolo eloquentemente mutuato da una famosa frase di MLK; ma vedi anche questo interessantissimo e stimolante commento sull'ultimo post segnalato nel blog Climalteranti).
C'è poi un altro aspetto cruciale costituito dai soldi da fornire ai paesi poveri per aiutarli ad adattarsi al cambiamento climatico: a Doha nessun vero passo avanti si è visto, in questo senso. Crisi economica o meno (probabilmente se non ci fosse, la lotta ai cambiamenti climatici rimarrebbe ostaggio di qualcosa d'altro), tutto è più o meno rimandato per l'ennesima volta, quando le circostanze lo permetteranno.
Interessante, infine, l'idea di un nuovo fondo creato per i paesi poveri non tanto e non più per permetter loro di adattarsi al cambiamento climatico, bensì per compensare perdite e danni in questi paesi. Un evidente segno dei tempi che ci indica inequivocabilmente verso che cosa stiamo procedendo.
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Dopo più di un mese di assenza forzata (a causa di vari impegni lavorativi che mi hanno tenuto abbondantemente occupato e lontano dalla blogosfera e il tempo scarseggia sempre più...), torno oggi con il primo di una serie di 4 post dedicati a spunti rizomatici associati al dopo Doha.
Iniziamo oggi con le scomode verità del bicchiere mezzo vuoto.
Guest post di Pietro Veglio per la RSI
La realtà ci indica che le produzioni mondiali di petrolio, gas naturale e carbone aumentano. Complici le tecnologie sempre più raffinate - in particolare a livello di perforazione orizzontale e frantumazione delle rocce scistose bituminose - che permettono di estrarre le energie di origine fossile da aree geografiche e profondità finora inesplorate. Estrazioni redditizie dati i prezzi mondiali di queste risorse.
Fra i grandi perdenti della partita il clima. Per non parlare dei rischi ambientali: esplosioni delle piattaforme petrolifere ed oleodotti in alto mare; uso di sostanze chimiche per frantumare le rocce con rischio di inquinamento delle falde freatiche; e sfruttamento petrolifero delle zone artiche.
Ma chi sono i Paesi “non virtuosi” responsabili di questa evoluzione recente? Generalmente si pensa agli Stati Uniti, Paesi arabi, Canadà, Kazakistan, Turkmenistan, Australia, Russia, Cina e India e alle rispettive compagnie petrolifere, nella maggior parte dei casi conglomerati statali. Cina ed India perchè utilizzano enormi quantità di carbone di origine domestica o importata per coprire la loro fame di energia. L’Europa viene invece identificata come una regione sostanzialmente “virtuosa”, perchè sembra convinta della necessità di favorire lo sviluppo delle energie rinnovabili e di ridurre l’uso delle energie fossili. Ma anche l’Europa non è esente da contraddizioni. Alcuni Paesi (Polonia in primis, Gran Bretagna) hanno ingenti riserve di carbone che utilizzano per produrre elettricità. Altri (Francia) dipendono in modo preponderante dal nucleare al quale non intendono rinunciare. Altri ancora (Spagna, Portogallo, Grecia) hanno fatto sì uno sforzo notevole per sviluppare il loro potenziale di energie solari ed eoliche. Ma complice la crisi della zona euro si sono visti obbligati a tagliare i sussidi pubblici ai rinnovabili provocando il fallimento di parecchie imprese del settore.
Fra i Paesi apparentemente più “virtuosi” vi è la Germania. Da alcuni decenni ha sviluppato capacità produttive notevoli puntando sull’energia solare, eolica e idroelettrica che insieme coprono il 25% del fabbisogno energetico tedesco. Dopo la tragedia di Fukishima il governo Merkel ha deciso di riunciare progressivamente al nucleare rilanciando un ambizioso programma di sviluppo ulteriore dei rinnovabili. Assumendo rischi notevoli ed attirandosi le critiche dagli ambienti economici.
Dietro la facciata la realtà è molto più complessa. Per esempio, la Germania non ha affatto rinunciato al carbone. Nello scorso agosto la RWE Deutschland AG inaugurava nei pressi di Colonia una centrale termica ultra-moderna del costo di 2,6 miliardi di Euro. La centrale utilizza carbone proveniente da una miniera a poca distanza.
Il carbone stà vivendo una seconda giovinezza e conta oggi per il 30% del consumo energetico globale. Alla base di questa espansione incide l’appetito di Cina ed India, ma anche dell’Europa e di altri Paesi, sempre più condizionati dai bassi prezzi del carbone proveniente da oltre Oceano rispetto a quelli del gas naturale importato dalla Russia. Certo, presto le imprese europee produttrici di energia elettrica dovranno pagare una penalità di 8 Euro per ogni tonnellata di CO2 emessa nell’atmosfera. Ma la penalità è ancora troppo bassa per stimolare una vera riconversione energetica.
Insomma una contro-rivoluzione energetica caratterizzata da una transizione dal nucleare al gas naturale ed un ritorno al carbone. Il peggio se si vuole lottare veramente contro i cambiamenti climatici!
Intanto gli Stati Uniti potrebbero diminuire la loro dipendenza energetica e le emissioni a effetto serra grazie alla scoperta di nuovi giacimenti di gas naturale, una risorsa localmente più competitiva dello stesso carbone. Altro che transizione verso energie rinnovabili e pulite!
Ben tornato!
RispondiEliminaGrazie!
EliminaIl tempo è sempre meno, ma si fa quel che si può...