Climate Justice

Chi deve pagare il costo delle politiche ambientali? La domanda, per quanto spesso usata per respingere interventi a tutela del clima, è legittima ed è uno dei temi della giustizia ambientale della quale ci ha parlato – sabato 19 settembre a Lugano nell’ambito dei LuganoPhotoDays – Valerio Bini, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano che, con l’Ong Mani Tese, sta lavorando a un indice di giustizia ambientale. 




Che cosa è la giustizia ambientale?
Il concetto in realtà ha qualche decennio, ma mi sembra che negli ultimi anni stia emergendo nel dibattito pubblico: se pensiamo alle recenti mobilitazioni per il clima, il riferimento è certo alla lotta al riscaldamento globale, ma anche alla giustizia climatica. È un passaggio ulteriore nel dibattito sull’ambiente che a lungo è sembrato essere un tema “post-politico”, che superava le divisioni tra destra e sinistra perché è un problema che riguarda tutti. In realtà la questione ambientale ha una componente distributiva molto forte: i danni ambientali non si distribuiscono in maniera uniforme, né a livello globale né a livello locale. Alcune categorie sono più svantaggiate di altre, e alcuni potrebbero addirittura trarre benefici dalla crisi socio-ambientale.

Oltre alla distribuzione dei danni ambientali, c’è il problema della responsabilità storica: i Paesi industrializzati sono adesso virtuosi, ma perché il lavoro sporco l’hanno fatto nei due secoli precedenti…
Ci sono teorie che sostenevano proprio questo: semplificando, l’andamento dell’inquinamento rispetto al benessere economico procede con un’impennata iniziale, poi si stabilizza e infine, quando il benessere è raggiunto, scende. Questo rimane in parte vero: ci sono maggiori strumenti di tutela, la qualità dell’ambiente migliora. Tuttavia ci sono alcune considerazioni da fare. Non solo bisogna pensare al tempo lungo, a chi in passato ha provocato il danno ambientale, ma ancora oggi, in alcuni settori, i Paesi ricchi sono i principali inquinatori. E i progressi che, ad esempio in Europa, ci sono stati sono in buona parte ottenuti delocalizzando imprese produttive riconducibili al sistema economico europeo ma che di fatto hanno il loro impatto ambientale altrove. Senza dimenticare delle disuguaglianze locali: pensando all’Italia, si sta generalmente bene ma vi sono danni ambientali localizzati: certi quartieri di Taranto – guarda caso i più poveri – sono direttamente colpiti da importanti danni ambientali.

La responsabilità rimane insomma dei Paesi ricchi.
È una questione che è discussa da anni, già a Rio nel ’92 era emerso, e forse ancora prima. Non è giusto che chi ha contribuito al deterioramento ambientale adesso dica “fermi tutti”. D’altra parte occorre anche considerare che oggi, se non agiamo tutti, quindi anche chi non ha una responsabilità storica, la soluzione non si trova.

Esistono diverse idee di giustizia: semplificando, ci sono quelle che pongono come obiettivo migliorare le condizioni degli ultimi, dei più sfortunati; altre teorie invece mirano a un benessere complessivo. Immagino che questa contrapposizione vi sia anche nella giustizia climatica.
È uno dei punti chiave, perché ci può essere un miglioramento statisticamente rilevante nella qualità ambientale di una nazione, ma frutto della realizzazione di aree ad altissima qualità ambientale per alcuni e il confinamento di altre parte della popolazione in aree con qualità ambientale bassissima. Per la mia presentazione a Lugano ho mostrato un’immagine da Lagos: da una parte la bidonville di Makoko, che si sviluppa su palafitte o su rifiuti coperti da sabbia per creare nuovo suolo – un impatto ambientale incalcolabile – e dall’altra parte c’è un nuovo quartiere per le élite, mille ettari anche questi sottratti al mare ma con alti standard ambientali, un quartiere che avrà anche la funzione di proteggere i quartieri ricchi della città dalle inondazioni.

Una situazione che voi cercare di misurare, con l’indice di giustizia ambientale.
Esatto. Questo indice tiene conto di diversi aspetti – quello distributivo è l’aspetto che colpisce di più, ma non è il solo. Andando con ordine: un indice è la somma di diversi indicatori e noi abbiamo scelto di lavorare su sei categorie. La prima riguarda, ovviamente, la qualità ambientale che rimane un elemento fondamentale. Il secondo punto riguarda la salute delle persone, ed è molto importante se pensiamo che la giustizia ambientale nasce proprio da queste rivendicazioni, quando negli anni Settanta negli Stati Uniti le comunità – a basso reddito e soprattutto nere, per cui si è parlato di “razzismo ambientale” – si oppongono al sistematico stoccaggio di rifiuti tossici nelle aree delle loro comunità. Anche qui abbiamo effetti distributivi interessanti: pensiamo che in Europa abbiamo una qualità dell’aria discreta grazie anche ai carburanti con poche impurità – ma al contempo esportiamo in Africa carburanti ad alto contenuto di zolfo, come messo in evidenza proprio da una Ong svizzera, Public Eye. La terza dimensione è quella dei diritti civili: la possibilità per i cittadini di opporsi a un danno ambientale. Poi due punti sulla distribuzione: le disuguaglianze interne agli Stati e quelle internazionali. Purtroppo non abbiamo indicatori diretti e abbiamo dovuto ricorrere a dei “proxies”, indicatori indiretti: abbiamo quindi preso in considerazione le disuguaglianze di reddito – assumendo una corrispondenza tra disuguaglianza ambientali e di reddito – e, a livello internazionale, la produzione di gas serra e l’estrazione di risorse critiche come il carbone o il petrolio. L’ultima dimensione riguarda la politica internazionale: quanto uno Stato si è impegnato in accordi internazionali e quanto li rispetta.

Questo indice di giustizia ambientale dovrebbe aiutare a capire meglio dove e come agire? L’elemento di valore di questo indice dovrebbe essere portare a ragionare non solo nei termini di qualità ambientale complessiva ma guardare a una dimensione socio-ambientale. Riportare insieme due dimensioni che abbiamo separato, quella sociale e quella ambientale. Perché non si può risolvere la questione sociale senza risolvere la questione ambientale e viceversa.

Un approccio globale.
Sì. Perché potremmo avere il paradosso di soluzioni ambientali con un impatto sociale devastante. Pensiamo a un’area protetta realizzata rimuovendo la popolazione dalle foreste. O politiche sociali condotte con impatti ambientali altissimi, come è stato in parte con la Rivoluzione verde negli anni Settanta e Ottanta. La volontà è affrontare le due crisi in maniera congiunta.

Commenti

  1. Sono d' accordo che non si può risolvere la questione sociale senza risolvere contemporaneamente quella ambientale. Solo che al di là dei richiami volontaristici che rientrano nell' ambito delle buone intenzioni la dura realtà è che le entrambe le questioni negli ultimi decenni si sono aggravate a livello globale e per ora non si vede all' orizzonte una forza sovranazionale in grado di invertire la tendenza.

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