Un po’ di Svizzera in Groenlandia


In alto a destra: lo Swiss Camp in Groenlandia. Sopra: il mare e i ghiacci a Ilulissat

Nel 1912, lo studioso svizzero Alfred de Quervain fu il primo ad attraversare da Ovest a Est la calotta di ghiaccio della Groenlandia. Un’impresa storica, svoltasi con successo: tutti i membri della spedizione, infatti, tornarono a casa sani e salvi. Ma non fu soltanto la sete di avventura a spingere il ricercatore bernese e i suoi compagni. In realtà, lo scopo principale della spedizione era quello di raccogliere dati e conoscenze scientifiche. Durante il percorso, De Quervain e la sua équipe effettuarono così osservazioni meteorologiche, condussero misurazioni e tracciarono, per la prima volta, un profilo altimetrico dell’intera calotta groenlandese. Un fatto scientifico straordinario, considerato l’epoca in cui si svolse. Da allora, di ghiaccio se ne è formato e se ne è anche sciolto. Ma la presenza elvetica nella regione e il ruolo di scienziate e scienziati svizzeri nella ricerca polare resta significativo (vedi per es. qui o qui). Non a caso, questa parte orientale della Groenlandia è soprannominata Schweizerland. Negli ultimi dieci anni, la Confederazione ha partecipato ad una cinquantina di progetti scientifici internazionali nell’Artico. Una presenza, quella dei ricercatori svizzeri al polo Nord, che può sorprendere solo all’apparenza. Se dalla sua posizione al centro dell’Europa, senza sbocchi sul mare, la Confederazione appare lontana dalle terre artiche, la grande conoscenza della neve e dei ghiacciai alpini, così come l’esperienza nella ricerca in alta quota e in condizioni estreme, hanno da sempre stimolato l’interesse dei ricercatori elvetici verso le regioni polari.



Copernicus Sentinel data (2015)/ESA






Osservando le calotte

 Ma di che cosa si occupano questi scienziati? E quali ripercussioni hanno le loro ricerche sulla nostra esistenza di tutti i giorni? Una recente pubblicazione del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) si propone di mostrare al pubblico l’operato della ricerca polare svizzera. Gli ambiti sono diversi (e complessi): si va dallo studio della circolazione atmosferica e dell’inquinamento dell’aria nelle regioni polari, all’osservazione delle calotte di ghiaccio della Groenlandia e dell’Antartide. Non possono mancare, inoltre, le ricerche sulle carote di ghiaccio che forniscono le informazioni sul clima e sul gas serra in età remote. All’apparenza locali, queste ricerche permettono di analizzare e capire meglio diversi fenomeni dalle ripercussioni globali. Basti pensare all’aumento del livello del mare causato dalla fusione dei ghiacci. Il timore degli esperti è quello che, nell’ottica di un ulteriore riscaldamento climatico, la calotta glaciale della Groenlandia ("responsabile" già ora di circa 1/3 dell'attuale incremento del livello dei mari) possa perdere una quantità di ghiaccio sempre più importante. Se dovesse sciogliersi completamente, il livello del mare salirebbe di circa sette metri (vedi grafico sopra a dx), stravolgendo così vastissimi territori. Proprio a causa del riscaldamento globale, la ricerca polare acquisirà quindi ancora maggiore importanza in futuro.

Fonte grafici: WG1, AR5, IPCC (2013)



Uno strumento di politica estera

 La pubblicazione della brochure sulla ricerca polare svizzera da parte del DFAE potrebbe anche stupire. Ma la presenza elvetica al polo Nord (e in Antartide) non è importante soltanto per ragioni scientifiche. Nel testo di presentazione dell’opuscolo, il Consigliere federale Didier Burkhalter lo spiega senza troppi giri di parole: «La forte presenza svizzera nelle reti di ricerca dell’Artide e dell’Antartide è molto importante anche per la politica estera». La ragione indicata è quella che, attraverso la loro partecipazione a missioni internazionali, «gli studiosi svizzeri contribuiscono a promuovere l’eccellenza svizzera nella ricerca e nell’innovazione». Insomma, la ricerca è anche uno strumento di politica estera.
In questo senso va quindi letta la candidatura, depositata lo scorso mese di marzo, con la quale la Svizzera intende essere accolta al Consiglio dell’Artico in qualità di membro osservatore. Di che cosa si tratta? Fondato nel 1996, questo forum intergovernativo di cooperazione riunisce gli otto Stati artici (Russia, Canada, Stati Uniti, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia e Islanda) e sei comunità autonome. Negli ultimi anni, una dozzina di Stati tra i quali l’Italia, la Francia e la Cina hanno ottenuto lo statuto di membro osservatore. Una presenza, quella dei Paesi osservatori, che è forse anche un modo per sottolineare la volontà di fare parte degli sviluppi scientifici (e commerciali) di una regione sempre più contesa. Ufficialmente, la candidatura elvetica «è parte dell’impegno duraturo della Svizzera per una pacifica cooperazione internazionale e per la ricerca d’eccellenza». Così si può leggere nel documento di presentazione. L’adesione o meno della Svizzera al Consiglio dell’Artico sarà decisa nel 2017.


Le risorse

 L’Artico si libera a poco a poco della sua scorza di ghiaccio. Ma più la calotta e la banchisa perdono massa glaciale e più la regione diventa un luogo conteso da Stati e multinazionali. Le ragioni sono due: il sottosuolo ricco di risorse naturali e l’apertura di nuove rotte marine. L’Artico potrebbe nascondere infatti circa un quarto delle riserve mondiali d’idrocarburi.
Non a caso, il 18 agosto scorso, il Governo federale degli Stati Uniti ha dato il via libera finale che consente alla Shell di avviare le trivellazioni nell’Oceano al largo dell’Alaska nord-occidentale per la prima volta in due decenni superando così la dura opposizione e le proteste dei gruppi ambientalisti.
Secondo questi ultimi le attività per l’estrazione del greggio sono particolarmente dannose per la fauna locale, che comprende anche specie animali a rischio estinzione, già provate dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. Ma l’agenzia di controllo competente ha sostenuto l’o.k. finale alla luce delle garanzie fornite dal gigante petrolifero in tema di protezione ambientale e capacità di prevenzione e intervento in caso di rischi.
La regione sarebbe anche la prima riserva mondiale di uranio e la terza di terre rare, i cui 17 metalli sono al cuore dello sviluppo delle nuove tecnologie. Un tempo inaccessibili, ora proprio per l’effetto della ritirata dei ghiacci (e del progresso tecnologico) l’estrazione di queste risorse è diventata più semplice e redditizia. Inoltre, le nuove rotte marittime commerciali permetteranno di ridurre di un terzo la distanza tra l’Asia e l’Europa: gli specialisti stimano che, all’orizzonte 2030, l’oceano Artico potrebbe essere navigabile tra i due e i sei mesi all’anno (tra aprile e settembre) ciò che ristrutturerebbe i traffici transcontinentali in termini di trasporto e tempi di concorrenza.



Intervista a Martin Lüthi, direttore del gruppo di glaciologia e geomorfodinamica dell'Istituto geografico dell'Università di Zurigo

Quando lo raggiungiamo, Martin Lüthi si sta preparando a partire per la Groenlandia. Dove è diretto?

«La nostra destinazione è il ghiacciaio Eqip Sermia, nella costa Ovest della Groenlandia. Questo ghiacciaio trasporta ghiaccio dalla calotta fino all’Oceano. Il movimento dell’Eqip Sermia si misura da 100 anni ed è sempre stato di circa 3 metri al giorno. Da sette anni il movimento si è accelerato e il ghiacciaio si muove ad una velocità maggiore di 10 metri al giorno. La velocità più alta è stata misurata lo scorso anno con 14 metri giornalieri».

Con quali conseguenze?

«I processi che investighiamo determinano la dimensione e la forma della calotta glaciale. La velocità di movimento del ghiacciaio accerta quanto velocemente il ghiaccio – che si forma dalla neve nelle parti alte della calotta – è trasportato verso l’Oceano. Ora, se uno di questi processi cambia, la grandezza e il volume della calotta a sua volta cambierà. E questi cambiamenti in volume hanno un enorme impatto sul livello globale dei mari. Se, come si osserva, si forma meno ghiaccio e più ghiaccio si scioglie dalla calotta, il volume di quest’ultima diventa più sottile. Il ghiaccio mancante viene trasformato in acqua che sfocia nel mare il cui livello si alza. L’accelerazione del ghiacciaio che stiamo analizzando ha lo stesso effetto: una quantità maggiore di ghiaccio è trasportata dalla calotta verso il mare, qui si formano iceberg che infine si sciolgono e contribuiscono anch’essi all’innalzamento del livello del mare».

Quale ruolo hanno le regioni polari per il clima della Terra?

«Le regioni polari sono molto distanti dalle aree densamente popolate e industrializzate del pianeta. Tuttavia, esse immagazzinano enormi quantità di acqua sulla terraferma sotto forma di ghiacciai e di grandi strati di ghiaccio. Qualsiasi cambiamento nel volume di questo ghiaccio stoccato sulla terraferma ha un impatto sul livello globale del mare. Ma anche la meteo mondiale e il sistema climatico sono fortemente influenzati dalle regioni polari. Ad esempio, le grandi aree oceaniche dell’Artico attorno al polo Nord sono permanentemente coperte da un sottile strato di ghiaccio marino. Attualmente, l’area di questo ghiaccio sta diminuendo ogni anno. Di conseguenza più superficie oceanica è esposta all’evaporazione, ciò che aumenta le piogge e le nevicate. Inoltre, l’Oceano coperto da meno ghiaccio è più scuro e assorbe quindi più calore solare. Di conseguenza gli oceani dell’Artico si stanno riscaldando molto rapidamente, in certi punti anche di parecchi gradi nel giro di pochi anni».

Come reagiscono i politici?

«È certamente molto importante informare i politici sul rapido, e probabilmente irreversibile, cambiamento in atto nelle regioni polari. Il messaggio che stiamo dando ai politici, tuttavia, è lo stesso da 40 anni, e molte predizioni si sono al momento dimostrate vere. Ma il sistema politico sembra preoccuparsi dei problemi a corto termine, perciò si è perso il lasso di tempo di una generazione per agire contro il riscaldamento globale».

A differenza che nell’Antartide, nell’Artico non è vietato l’utilizzo delle risorse naturali. La regione è ormai contesa dagli Stati proprio a causa delle risorse potenziali che possiede. Come vede il futuro dell’Artico?

«Vi sono enormi investimenti infrastrutturali nell’Artico da parte di tutti gli Stati polari. La diminuzione del ghiaccio marino e lo scioglimento dei ghiacciai apre nuove opportunità per estrarre idrocarburi, ciò che era impensabile fino ad un decennio fa. Inoltre, la diminuzione dei ghiacci marini apre nuove rotte marittime nell’Artico. Queste rotte diventeranno economicamente redditizie entro un decennio. Fino a poco tempo fa, l’Artico è rimasto immune allo sfruttamento umano. Oggigiorno, diversi grandi investitori intravvedono la possibilità di fare dei profitti a corto/medio termine e stanno quindi investendo nella ricerca di risorse nelle regioni artiche».

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