Occam artico


Gillett et al. 2008

Fa discutere, nel quartiere accanto, la decisione della rivista Nature Geoscience di non pubblicare un commento critico - come ce ne sono migliaia nell'ambito di critiche e tentativi di rebuttal di pubblicazioni scientifiche - di Mariani et al. a proposito dell'attribuzione prevalentemente antropica del riscaldamento recente delle regioni polari da parte del gruppo di Nathan Gillett et al.  Il focus è l'Artico e la diatriba non è nemmeno tanto recente, essendo lo studio in oggetto di critica pubblicato nell'ottobre  2008 e la decisione della rivista di non pubblicare la risposta di pochi mesi dopo. In un lustro, quante altre pubblicazioni sul tema sono apparse (per esempio)?


Premetto subito due cose: non ho letto tutta la lunga trafila dei vari revisori, ora oltretutto nemmeno più reperibile direttamente per problemi che hanno a che fare con la policy della rivista. Detto questo, sono però dell'avviso che - in generale, al di là della legittima e comprovata scelta editoriale di non pubblicare  rebuttal e commenti bocciati e nel contesto di un oceano di altri esempi simili che tolgono già subito di mezzo qualsiasi tentativo di ricamarci sopra patetiche ossessioni di stampo complottistico - scambi di questo tipo siano sempre meritevoli di trovar luce. Se rispettano i crismi del metodo scientifico (e mi pare che il commento/tentativo di rebuttal in questione lo fosse), perché non pubblicare uno scambio dialettico che, sebbene bocciato e forse interessante più che altro ad addetti, permette di mettere in gioco ulteriori approfondimenti?
fonte
Per es. il commento di uno dei referees solleva la questione dell'auspicio e della necessità di miglioramento dei GCM nell'ambito della possibilità di "cattura" dei segnali climatici relativi alla variabilità interna (vedi grafici a lato) e nella fattispecie associabili sia alle simulazioni dei modi anulari (strettamente dipendenti da forza, vigore, persistenza del vortice polare e come si sa molto importanti per le variazioni interannuali dei parametri climatici dell'Artico) e sia ai processi convettivi tropicali e alle teleconnessioni che i loro effetti (via induzione di onde Rossby) provocano alle latitudini più alte. Qualcosa, di questo affascinante ambito, è stato detto anche qui su MS (vedi per es. qui, qui o qui).
D'altra parte, va ricordato come lo studio in questione sia uscito dopo la pubblicazione del WG1 dell'ultimo rapporto dell'IPCC (con tutti si suoi caveat sull'uso dei GCM) ma pure e di nuovo che fra il 2008 e il 2013 è trascorso un lustro, se non andiamo errati.
The climate models used in IPCC AR4 are definitively in need of improvements in the stratosphere and its coupling with the troposphere (annular mode simulations) and the tropical convective processes (teleconnections to higher latitudes)…

Anyhow: quali le principali debolezze del commento di Mariani et al.?

La confusione che emerge qua e là fra variabilità interna e forzanti naturali. Endogeno al sistema climatico è tutto ciò che non forza il bilancio energetico del sistema stesso, esogeno è la perturbazione che invece lo modifica. Che questa sia prevalentemente di origine naturale (variazione dell'irradianza solare, vulcanismo) oppure antropica (GHGs, aerosol solfati, aerosol fuligginosi, depletion dell'ozono stratosferico via reazione chimica con i CFC) poco importa, in questo specifico contesto.
Eppure, per es. lo stesso Mariani sul blog di riferimento, rincara dicendo:
Quello che mi colpì quando per la prima volta lessi l’articolo di Gillet fu il diagramma in figura 1° (e sarebbe bello se Guido potesse riproporlo in questo post perché è emblematico del nostro attuale livello di ignoranza del sistema). Nel grafico in sintesi si propongono tre linee, in una delle quali (la nera) si descrive l’andamento reale delle temperature in Artide con un calo fino al 1920, un aumento vigoroso fra il 1920 e il 1940, un nuovo calo fra 1940 e 1970 ed un successivo aumento molto vigoroso fra il 1970 ed il 2000. A fronte di questo abbiamo la linea blu (solo forcing naturale) che ci mostra il comportamento del modello senza “effetto antropico”. Tale linea è del tutto orizzontale, dimostrandosi dunque non in grado di descrivere nel modo più assoluto la variabilità naturale (che è tantissima nel 20° secolo, come mostra la linea nera). Il modello con il forcing antropico (linea rossa) manifesta infine un comportamento del tutto analogo tranne che nella parte finale del grafico in cui mostra di seguire l’aumento post anni 70 (una sorta di mazza da Hockey, dunque). Da qui l’idea di provare a veder quanto potere descrittivo del forcing naturale fosse insito in meccanismi (AMO, PDO, ecc.) che il modello di Gillett non riusciva assolutamente a descrivere, e qui la scoperta che questi indici ci dicono moltissimo.
La consapevolezza dell'attuale livello ignoranza del sistema, in effetti, non può non partire dal saper riconoscere che un sistema complesso, qualsiasi sistema complesso come lo è quello climatico (deterministico, altamente non lineare, assolutamente non in equilibrio ma anche caotico e stocastico), reagisce sì a sollecitazioni esterne ma viene pure accompagnato da normali fluttuazioni interne. In questo ultimo caso, per le regioni artiche contano certamente oscillazioni rapide come effetti remoti dell'ENSO ma soprattutto la variabilità della forza e della persistenza del vortice polare (in stretta connessione con la stratosfera) e degli associati modi anulari di circolazione. Poi contano un po' anche le oscillazioni più lente come le variazioni delle temperature marine del Nordpacifico e dell'Atlantico (leggibili negli indici PDO o AMO: più che altro nella capacità che possono avere di alterare la circolazione generale dell'atmosfera). Poi ovviamente entrano in gioco i forcing stocastici dati dai feedback di cui l'amplificazione artica è il suo segnale più evidente e fisicamente robusto.
Per cui: la linea orizzontale del solo forcing naturale nel lavoro di Gillett et al. (vedi figura in apertura di post, linea blu, NAT) rappresenta solo quello che dice di rappresentare. Variazioni nella forzatura esterna di origine naturale nel corso del 20esimo secolo come concausa eventuale del trend termico. Se è prevalentemente piatta, significa solo che i forcing naturali hanno avuto ben poca parte in causa.
Il fatto che la variabilità naturale è più grande (come mostra l'andamento delle temperature nel 20esimo secolo) significa soltanto che la parte preponderante in causa è il frutto del lavoro di coppia fra variabilità interna (che è stata determinante nel riscaldamento artico del periodo fra gli anni 20 e gli anni 40) e crescente (soprattutto dagli anni 60 in avanti, ma presente in piccola traccia già prima) forzatura esterna di origine antropica. E c'è anche nell'abstract del paper originale.

Un'altro problema affiora nell'ambito delle due variabili scelte per rappresentare le interazioni oceano-atmosfera: AMO e PDO sono trattate come fossero parametri a se stanti e non soggiacenti, a loro volta, ai trend forzati. Questa sembra essere la key weakness rilevata sia da uno dei revisori che nella replica da parte degli stessi autori. Questi indici che rappresentano variazioni multi-decennali delle temperature marine dei due oceani sono in primis parte integrante della stessa variabilità interna a bassa frequenza (decenni: si pensi al ruolo di lenta riemersione di anomalie termiche oceaniche oppure per es. al ruolo che ha la circolazione termoalina), poi sono a loro volta influenzati dalla variabilità interna a più alta frequenza (anni) sia come "deposito" di segnali oceano-atmosfera di frequenza interannuale (si pensi al ruolo che ha l'ENSO nel condizionare lo stato del Pacifico mediante connessione con l'oscillazione barica nordpacifica (NPI) o tramite un meccanismo di riemersione delle anomalie che ne favorisce la persistenza  e nel contribuire ad una parte della varianza della PDO, ma in misura minore anche nell'influenzare, sul breve periodo, l'AMO) sia come conseguenza di feedback indotti da anomalie atmosferiche (per es. un reddening delle anomalie causate dallo stato dell'atmosfera: si pensi per es. al ruolo che le grandi correnti atmosferiche delle medie latitudini, e soprattutto la loro persistenza nel tempo, hanno nel condizionare le temperature superficiali del Nordatlantico). Infine contengono pure il segnale del forcing esterno (naturale o antropico che sia): in sostanza il trend termico globale condiziona pure la configurazione termica delle temperature marine e i relativi e menzionati indici multi-decennali (vedi per es. qui e qui per l'AMO e qui e qui per la PDO).
Nel merito: la AMO standardizzata non è dato sapere se sia detrendizzata o meno, ma nel dubbio e in assenza di informazione dal commento suppongo non lo sia. Questo è un classico errore che si fa quando si prende un indice di variazione multi-decennale che soggiace al trend di fondo e non si tenta di rimuovere questo trend (vedi qui). È palese che se correli un indice che contiene il segnale del trend di fondo con le temperature di una porzione di mondo (l'Artico, in questo caso) che pure risponde in maniera diversificata allo stesso trend di fondo, non fai che correlare il GW (o una sua parte) con se stesso (o una sua variante) e quindi non si può che ottenere valori che apparentemente "indicano moltissimo".
In sé, l'AMO rappresenta, a priori, l'evoluzione delle stesse T globali su una pur importante porzione di oceano e non un qualsiasi processo fisico che influenza le temperature stesse. Per spiegare l'andamento di questo pattern può ovviamente essere utilizzata una combinazione di differenti fattori influenzanti nel tempo (forcing esterni, naturali e antropici), ma pure variazioni nelle correnti oceaniche come l'AMOC (che avvengono però con frequenze ancora più basse rispetto ai cicli multi-decennali conosciuti nel 20esimo secolo e perciò possono solo spiegare una parte residua della variabilità), per cui non sussiste, a priori, alcun elemento che in sé possa  suggerire un'evoluzione delle T del Nordatlantico (NATL) significativamente differente rispetto all'andamento delle T globali, perlomeno sulla scala temporale utilizzata nel lavoro in questione. Una forte correlazione fra T del NATL e T globali potrebbe suggerire o una risposta su entrambe le porzioni geografiche (quella del regionale NATL e quella globale) a simili influenze esterne (cosa che non sembra improbabile), oppure un effetto globale conseguente alla fluttuazione regionale o infine il contrario, un influsso dell'evoluzione delle T globali su aree geografiche più piccole come il NATL. Quest'ultima relazione sembra la più evidente, vedi per es. quest'interessante analisi statistica effettuata mediante la causalità di Granger (piacerà a Pasini et al.:-D ma vedi anche questo grafico sotto dove si vede bene che la cross correlazione fra AMO e T globali raggiunge coefficienti moderati e statisticamente significativi (p-value > 0.05) ma con le T globali che precedono la AMO (picco a due mesi).
Se l'AMO può quindi amplificare o smorzare gli andamenti della T globale (e di riflesso anche quelli regionali), appare evidente che l'indice stesso risente ampiamente dell'andamento delle T globali: se si riscalda il globo si riscalda anche il NATL ed eventualmente si riscalda anche più della media globale (per es. perché il Pacifico ha una maggiore inerzia termica).
Almeno per questo, andrebbe sempre detrendizzata sul lungo periodo in modo da liberare gran parte del suo segnale dall'influenza delle T globali. Questo procedimento viene fatto sottraendo un trend lineare e rendendo infine nulla la media delle SST; siccome però le T globali non hanno un andamento lineare, all'interno dell'evoluzione oscillante dell'AMO rimane un segnale residuo - una componente del GW -  dovuto a queste fluttuazioni nelle T globali. Per questo un procedimento migliore (vedi qui e immagine a lato) è quello di sottrarre alle SST del NATL quelle medie globali degli oceani per poter escludere il segnale indotto dalle fluttuazioni nelle T globali. Stando così le cose, l'andamento cambia assai: il picco degli anni 30 risulta essere più intenso e supera quello della fase più recente che appare decisamente meno positiva poiché una parte del segnale è conseguenza del recente GW e non della fluttuazione interna del NATL.
Per quel che riguarda la PDO: va bene che questo indice (come anche l'AMO, peraltro) impatta sul modo di circolazione generale dell'atmosfera mediante influenza sulle correnti a getto e quindi potrebbe condizionare indirettamente l'importante modo anulare boreale. Tuttavia, in sé, avere una PDO+ (come nel periodo fra la seconda metà degli anni 70 e fine anni 90) si traduce in anomalie delle temperature superficiali oceaniche (SSTA) positive nella parte orientale dell'oceano e negative in quella più estesa dell'area centro-occidentale (il contrario con PDO-). L'indice (ottenuto via EOF dopo aver sottratto il trend globale dalle SST del Nordpacifico) rispecchia una configurazione delle SST sul Nordpacifico assai meno omogenea rispetto a quella che l'AMO produce sul NATL. Esiste una ragione diretta per la quale una parte di oceano (quella con SSTA+, peraltro la meno estesa ) dovrebbe essere sufficiente ad influenzare l'andamento delle T dell'Artico a dispetto dell'altra parte (quella con SSTA-)?** Senza contare il fatto che le anomalie tropicali sono annullate da quelle di segno opposto nelle zone extra-tropicali, stemperando il segnale generale.
**[Update 9/6, h/t elz, vedi commenti: la NPI e la PDO sono in larga parte un duplicato, la NPI è una misura di quanto è profonda la bassa pressione delle Aleutine che, come si vede nell'immagine già linkata e raffigurata qui accanto a sx, è il pattern atmosferico che genera quello oceanico della PDO (vedi anche tabella e immagine accanto, a dx); è plausibile che la fase negativa della NPI (e positiva della PDO) siano associate a
temperature artiche più elevate dato che viene convogliato un flusso di aria mite da sud verso l'Alaska-nord Canada (vedi immagine a
lato, a sx). Ci si può ragionevolmente chiedere se gli autori si siano accorti che siamo in una fase di PDO- e che l'AMO, al netto del GW e come detto sopra, è assai meno positiva che negli anni 30-40 mentre le temperature artiche sono ai massimi con un ampio margine sul passato, vedi immagine sotto].
Da notare, poi, come anche per la PDO valga lo stesso principio accennato prima: separare la fluttuazione interna al sistema da quella forzata è d'uopo anche in questo caso, ma qui la cosa si complica ulteriormente, perché in questo caso le due strutture (il pattern delle SST del Pacifico che soggiace alla componente della fluttuazione interna e quello che emerge dalla componente forzata) sono simili (anche qui). Vedi la seguente mappa che mostra la correlazione fra le SST globali e il trend delle stesse. Si nota (oltre che la forte correlazione nelle aree oceaniche tropicali soprattutto indiane e indo-pacifiche ma pure atlantiche) una configurazione generale simile alla PDO+ e in parte AMO+.


 Infine forse l'implicazione più interessante che indirettamente emerge dal commento: la recente impennata delle T artiche non potrebbe essere a sua volta frutto di variabilità interna, a dispetto di quello che, nei modelli, la risposta simulata risultante dall'accoppiata forcing naturali + antropici (linea rossa, ALL, nel grafico sopra) ci dice? I modelli potrebbero anche sbagliare, vero. E considerando la possibile sottostima dell'amplificazione artica, la cosa potrebbe anche avere un certo senso. Questo, mi pare, è quello che volevano dimostrare Mariani et al.
Ma come in ogni discussione di carattere scientifico, anche in questo caso alla teoria e alla simulazione va affiancata l'osservazione. E questa e la sua ricostruzione (vedi anche qui) ci dice che tipo, luogo, quota, stagionalità e intensità del riscaldamento artico degli ultimi decenni dipingono uno scenario assai diverso rispetto a quello avvenuto nel periodo compreso fra gli anni 20 e gli anni 40 del secolo scorso. Vedi anche qui, qui e qui.

Insomma: è davvero difficile pretendere di smontare un lavoro sulla scorta di un'analisi che contiene errori di valutazione e che, peraltro, ipotizza qualcosa che - ad oggi e finché rimane provvisoriamente non falsificato - appare difficilmente ipotizzabile.

Occam e l'ipotesi nulla non permettono di aggiungere altro, al momento.

Commenti

  1. Grazie Steph, analisi davvero chiara e accurata
    Ciao
    Stefano

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  2. La NPI e la PDO sono in larga parte un duplicato, la NPI è una misura di quanto è profonda la bassa pressione delle Aleutine che come si vede da una delle immagini linkate è il pattern atmosferico che genera quello oceanico della PDO; è plausibile che la fase negativa della NPI(e positiva della PDO) siano associate a temperature artiche più elevate dato che viene convogliato un flusso di aria mite da sud verso l'Alaska-nord canada, mi domando se gli autori si siano accorti che siamo in una fase di PDO- e che l'AMO al netto del gw e assai meno positiva che negli anni '30-e '40 mentre le temperature artiche sono ai massimi con un ampio margine sul passato.

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    Risposte
    1. Ho fatto un update del post, inserendo il tuo commento e altre figure. Thanks!

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